IV

Il lavoro di costruzione del melodramma metastasiano, sempre piú arricchito e precisato, e insieme sostenuto da un’ispirazione in progressiva manifestazione, continua, al di là dell’Artaserse, nel nuovo periodo viennese attraverso la prova già consolidata e alta del Demetrio e le prove minori (quasi una battuta di indugio prima dei due capolavori) dell’Issipile e dell’Adriano in Siria, per aprir poi la splendida e breve fase costituita dall’Olimpiade e dal Demofoonte nel 1733, l’anno anche della Libertà.

L’arrivo nella capitale dell’Impero, l’impegno di gara con la fama della Zeno, il bisogno di conquistare un nuovo pubblico, stimolano il Metastasio ad una singolare alacrità creativa, a una suprema verifica e perfezionamento del suo strumento espressivo. E d’altra parte, come ho notato parlando della lettera sul carnevale romano e del sonetto Sogni e favole fingo, ad una forte presa di coscienza della propria poesia, dei suoi nuclei patetici-emotivi, della sua alta qualità di finzione teatrale e di partecipazione personale corrisponde un singolare incontro di solitudine (perso il caldo vivo contatto con un mondo di persone, di amicizie, di pubblico, di consuetudini) e di piú forte vita intima e fantastica che lo stesso senso di isolamento sollecita e approfondisce, condensando nella vita delle sue creazioni il senso piú profondo della sua esperienza vitale e sentimentale, commutando in realtà di favola la spinta nostalgica e in forza di superiore misura rappresentativa l’intera dimensione dei suoi ideali di vita nazionalnaturale, il succo piú profondo della sua partecipazione al costume vivo, alla moralità, agli ideali estetici del suo tempo.

Mentre la gara con lo Zeno si allarga in un confronto e in una gara con il teatro francese[1] che piú tardi aggraverà le pretese solo tragico-eroiche del Metastasio, in coincidenza con un minor ricambio con un pubblico vivo e vario, con un’adeguazione prevalente alle esigenze della corte cesarea e ai suoi compiti di collaboratore ad un’educazione di un milieu aristocratico di cortigiani e principi in un progressivo piú reale isolamento in una zona astratta di virtú e di «anime belle» cavalleresche-cortigiane. Notando bene che la tensione «virtuosa» e lo stesso rilievo nobile ed eroico dei personaggi non son certo elementi radicalmente eterogenei al Metastasio, ma funzionano poeticamente sol se funzionanti in rapporto all’elemento patetico, come arricchimento della personalità dei personaggi patetici, come «coturno» nobilitante, non come guida e Leit-Motiv del melodramma.

Sicché nel diagramma dell’attività metastasiana i primi anni viennesi si precisano come un momento breve ed intenso di equilibrio storico e di profondità personale in cui esperienza e fantasia poetica e poesia si commisurano saldamente per poi rapidamente squilibrarsi verso un prevalere delle intenzioni piú pedagogiche, legate al nuovo ambiente viennese, piú astratto, internazionale, aristocratico, degli schemi tragici privati della forza del patetico in ciò che esso comportava di piú moderno e popolare, e in un progressivo distacco del poeta dalla corrente viva del tempo quanto piú questo volge a nuovi ideali di fronte a cui il Metastasio si fa sempre piú scettico, laudator temporis acti, e addirittura conservatore e reazionario.

Segno anche delle sue limitate possibilità di sviluppo, di comprensione storica, di rinnovamento, ma insieme rinvio alla fase viva della sua originale interpretazione di un’epoca e di un pubblico (quello italiano del decennio venti-trenta) e della sua piú personale e fantastica realizzazione (nei primi anni viennesi), entro cui solo va cercata la poesia del Metastasio e la spinta evolutiva autentica della sua arte.

Entro la fase breve dei primi anni viennesi va poi individuata, sulla base generale indicata, un’ultima articolazione interna: la prova intensa del Demetrio, le battute piú incerte e le verifiche anche a contrasto della misura melodrammatica (con insieme acquisti e perfezionamenti) dell’Issipile e dell’Adriano in Siria, e poi i due capolavori in cui tutta la preparazione metastasiana si realizza fra la misura armonica compiuta dell’Olimpiade e la linea piú energica e complessa del Demofoonte, massimo equilibrio fra misura e spinta drammatica oltre la quale l’equilibrio interno ed artistico si infrange per sempre.

Nel Demetrio ciò che soprattutto colpisce il lettore attento allo sviluppo metastasiano è la evidenza piú forte di quel segreto personaggio melodrammatico che è il destino, con la sua azione chiusa entro la misura di un tempo serrato e incalzante (il giorno decisivo e insuperabile) e riflessa nelle reazioni dei personaggi teatrali.

Certo nel Demetrio la volontà di contrasto drammatico è ancora troppo scoperta e la contrapposizione di personaggi malvagi, chiusi nel monologo, e di personaggi umani, ricchi di perplessità, di capacità emotiva, fra debolezza, generosità e dignità, è ancora troppo netta, anche se, fuori del vero sviluppo metastasiano, questa contrapposizione può far pensare alla possibilità di una piú vera «tragedia»: ma astrattamente o in paragone di quella linea tragica che sol con l’Alfieri il Settecento riuscí ad attingere in forza di una intensa visione e di una problematica tragica che l’epoca arcadica non visse se non come velleità smussata e frustrata dalla sua inclinazione ottimistica-razionalistica, dal suo fine edonismo spinto piú all’esaltazione e fruizione della vita, insaporita da fermenti di diagnosi pessimistica, che non al senso autentico di un dramma.

Ma in questo sforzo piú apertamente drammatico, che si coagula meno convincentemente nei personaggi «malvagi» come Olinto[2], e che limita quella possibilità di sostanziale omogeneità e armonia della misura base dei personaggi che è mèta tipica del Metastasio (e che sol dall’esterno può considerarsi il suo piú forte limite), il senso del destino, nel suo aspetto di ostacolo alla felicità e al lieto fine, si enuclea piú chiaramente con un acquisto fondamentale.

Il senso del destino domina soprattutto poeticamente la vita del personaggio piú sottilmente indagato e realizzato, Cleonice, quasi una Didone meno impetuosa, ma piú intima e veramente metastasiana, in cui la perplessità è divenuta (diversamente dal piú meccanico atteggiamento di Enea) il punto limite di un moto complesso dell’anima ansiosa nella sua trepida attenzione al destino che la tende e la agita, nella vita amorosa di cui essa avverte in sé e segue nell’amante i segni rivelatori e la forza incantevole, spiando il volto amato, fantasticando di funesti presagi, aprendosi a colloqui teneri e ansiosi, ascoltando i «palpiti» del cuore che qui è ormai pienamente attivo nel percorso dei suoi tortuosi meandri, nella sua alacrità di presentimento[3], nel suo contrasto con il dovere, nella sua forza di verità: ché il cuore metastasiano sa il suo meglio, intuisce quella che sarà la vittoria esterna del lieto fine, e sigla cosí la fede ottimistica nel circuito natura-ragione (la ragione par identificarsi prima nel dovere, poi si riconosce conferma della natura e dell’istinto), nella razionalità provvidenziale della natura e saggezza della libertà dei sentimenti.

Sicché poi son le convenzioni e il costume che si adeguano alla forza e sicurezza del cuore e della natura, e il destino prima ostile finisce per convalidare e realizzare i diritti e le ragioni del cuore.

E il Metastasio vuol persino, in questo melodramma rivelatore, che un personaggio-testimonio intuisca, entro il fitto turbamento che provoca in lui la sorte avversa, pur nel pimento tormentoso del dubbio, del «chi sa», che tale è la mèta provvidenziale del melodramma. E cosí Fenicio sa coerentemente trovare un’aria comparativa estremamente emblematica per questa rivelazione centrale del modulo melodrammatico:

Chi sa? Talora

nasce lucido dí da fosca aurora.

Disperato in mar turbato,

sotto il ciel funesto e nero,

pur tal volta il passeggero

il suo porto ritrovò.

E venuti i dí felici,

va per giuoco in su l’arene,

disegnando ai cari amici

i perigli che passò.[4]

Ma insieme, a rinforzare il senso della vittoria finale e la vibrazione drammatica che la precede, proprio nel Demetrio se ne assicura l’altro essenziale elemento: l’imprevedibilità del piacere nell’esperienza del dolore, da cui deriva la difficoltà di spegnere l’onda della meditazione pessimistica anche quando le cose volgono al loro esito finale. Come Alceste, dopo la formula (divenuta poi comica) del «Sogno? Son desto», esprime il suo dubbio di fronte alla inattesa felice soluzione del suo dramma e come commenta, con altra aria rivelatrice, intorno alla parola tematica del «porto», Mitrane:

Avvezza a vivere

senza conforto,

ancor nel porto

paventi il mar.[5]

Ché, ancora, le stesse agnizioni, cui il Metastasio ormai ricorre costantemente, e che tanto ci disturbano se non accettiamo lo scopo essenziale di una favola esterna costruita per la favola piú interna dei sentimenti (tale, ripeto, è la convenzione e il limite della «probabilità» del melodramma), servono a lui e per rovesciare una situazione altrimenti insolubile e inevitabilmente catastrofica e per rivelare il suo fondo provvidenzialistico e soprattutto per creare le alternanze del cuore, le oscillazioni estreme fra desolazione e felicità inattesa entro le quali ondeggia il filo della vicenda patetica fra timori e speranze, fra l’oscurarsi e il rasserenarsi parziale di un cielo turbato cui i personaggi guardano con il loro sguardo ansioso ed incerto.

Coerentemente a questa cresciuta sicurezza del modulo melodrammatico e del suo senso poetico cresce l’acutezza psicologica e la sua resa stilistica[6] e la tecnica del dialogo, del monologo, con novità di impostazione che non sono trovate esterne, ma corrispondono al maggior premere e articolarsi della situazione patetica in tutte le volute complesse della linea melodrammatica.

Cosí una scena si apre ex abrupto con un’invocazione di Cleonice all’amato assente, in cui la forza emotiva dell’«invano» ripetuto a chiasmo e del ripetuto interrogativo si fonde, entro avvii di dialogo, con la prefigurazione perplessa, e siglata dal «forse», della ripetuta speranza di un lieto ritorno:

Alceste, amato Alceste,

dove sei? Non mi ascolti? In van ti chiamo;

t’attendo in van. Barsene (a Barsene che sopraggiunge),

qualche lieta novella

mi rechi forse? Il mio diletto Alceste

forse tornò?[7]

Cosí si precisa nei recitativi la capacità di caratterizzare i personaggi descritti ed evocati dalle parole altrui, come da interne ed attive didascalie (ridotti al minimo i suggerimenti precisi delle vere e proprie didascalie che assecondano sobriamente i movimenti patetici e perplessi[8]). E si veda, in proposito, come nelle parole di Olinto, all’inizio della tragedia, si profila la figura ansiosa e malinconica di Cleonice con le sue inquietudini istintive e accentuate come pretesto di ritardo alla decisione delle nozze aborrite:

E non risolvi ancor. Di tua dimora

quando un sogno funesto,

quando un infausto dí timida accusi.

Or dici che vedesti

a destra balenar; or che su l’ara

sorse obliqua la fiamma; or che i tuoi sonni

ruppe d’augel notturno il mesto canto:

or che dagli occhi tuoi

cadde improvviso e involontario il pianto.

E cresce l’arte metastasiana della pausa che coinvolge, attraverso il parlare (si ricordi il precetto metastasiano di «tutto parli»), il gestire, il movimento del personaggio e il procedere della favola esterna e dell’interna favola dei sentimenti, la tecnica delle inversioni, delle ripetizioni, dei chiasmi che puntano sulla preminenza delle parole piú sensibili e piú sentimentalmente attive.

Mentre all’accresciuta forza e delicata tensione ed articolazione degli approfondimenti elegiaci e delle aperture idilliche corrisponde l’ulteriore maturazione e selezione del linguaggio intorno ai suoi avverbi e proposizioni e congiunzioni tematiche («in vano», «pur troppo», «mai piú», «forse», «chi sa», «e se»), intorno alle situazioni degli incontri e degli addii (magari nuovamente configurati nella lenta, perplessa stesura di una lettera di congedo necessario e struggente[9]).

E cosí, specie al culmine della linea patetica nella sua piega di dolorosa sensibilità (che è certo la gamma piú ricca della tastiera metastasiana), sgorgano limpidi e melodici versi vibranti di elegia e sospirosa densità sentimentale, si snoda l’accordo fra recitativi e aria, escluse ormai del tutto le arie di «bravura» e distribuita la sentenziosità morale piú convenientemente entro le arie ed entro i recitativi[10]. Con tutta una superiore maturità di linguaggio che giunge a quella mèta di semplicità e di eleganza cui il Metastasio tendeva, a forza di scelta, di riduzione, di condensazione, di sviluppo interno (e non dunque per pura necessità librettistica), di rastremazione dell’immaginosità, del colore, del sonoro, in una misura eccellente in cui spesso un aggettivo con la sua collocazione basta a portare la voluta vibrazione (cosí l’«infausta cuna», il «nume infausto»), un interrogativo basta a rialzare la voluta patetica, un contrasto di verbi basta a delineare una situazione dolorosa fra libertà e necessità: «può» e «deve» a contrasto nella parlata di Cleonice nella scena tredicesima dell’atto secondo[11].

Linguaggio di cui è esempio particolarmente probante il recitativo di Cleonice, già in parte citato, nella scena terza dell’atto terzo, che insieme propone, a questa altezza di maturità, la forza e il significato dell’idillio arcadico entro l’attiva visione melodrammatica del Metastasio: evasione di sentimenti e di melodia in una finzione pur sempre socievole e umana, affabile ed eletta, come la risoluzione del pastore in re confermava non un sovvertimento rousseauiano di ordini sociali, inconcepibile in Metastasio, ma, nel rispetto delle convenzioni sociali, un’effettiva vittoria del cuore, della dignità naturale.

Cleonice (che accetta di lasciare la reggia per vivere la condizione pastorale di Alceste):

Nel tuo povero albergo

quella pace godrò che in regio tetto

lunge da te questo mio cor non gode.

Là non avrò custode

che vegliando assicuri i miei riposi;

ma i sospetti gelosi

alle placide notti

non verranno a recar sonni interrotti.

Non fumeran le mense

di rari cibi in lucid’oro accolti;

ma i frutti ai rami tolti

di propria man, non porteranno, aspersi

d’incognito veleno,

sconosciuta la morte in questo seno.

Andrò dal monte al prato,

ma con Alceste a lato;

scorrerò le foreste

ma sarà meco Alceste. E sempre il sole

quando tramonta e l’occidente adorna,

con te mi lascerà,

con te mi troverà, quando ritorna.

* * *

Prove minori fra Demetrio e i capolavori del ’33 sono l’Issipile e l’Adriano in Siria che pure, nel percorso costitutivo del melodramma metastasiano prima della compiutezza armonica dell’Olimpiade, rappresentano esperienze funzionali tutt’altro che trascurabili in rapporto a particolari elementi del melodramma della maturità.

L’Issipile porta soprattutto, entro un clima mitico assolutamente fuori della storia (e i due capolavori vivranno in un uguale clima mitico favoloso piú adatto alla favola assoluta del melodramma metastasiano, in cui la storia penetra attraverso l’elemento moderno del patetico, del gentile, dell’educata moralità), il tentativo di sviluppare una vicenda sentimentale estremamente borghese e familiare fin quasi ai limiti di un dramma «larmoyant». Che è pure direzione che prevale, in forme tanto piú caute e sicure, e in un accordo migliore con l’aura mitica e con il piano di nobilitazione regale, nei due capolavori del ’33.

Sicché al centro della favola, e sul contrasto sin troppo facile con il personaggio «malvagio» di Learco, ambizioso, vendicativo, perfido in ogni suo atteggiamento (con l’inerente peso di un’abbondanza fastidiosa di sentenze moralistiche che circondano e limitano, per preoccupazione morale, la sua figura «outrée» che serve al finale apertamente disposto al fabula docet[12]), si profila la variante di un doppio affetto filiale e coniugale che funziona, nelle figure piú omogenee di Issipile e Giasone, Toante e Rodope, nella direzione di una maggior tenerezza entro un cerchio di affetti piú umani e medi.

Mentre, dal punto di vista della costruzione generale del melodramma, l’Issipile evidenzia (nella via già provata dal Demetrio) l’efficacia di un tempo estremamente ristretto ad accogliere una voluta assai complessa di vicende (e il compiacimento di tanta abilità tecnica, coerente al bisogno analitico-sintetico della poesia arcadica, si esprime chiaramente nell’osservazione finale di Rodope: «Quante vicende / un sol giorno adunò») e fra i moduli di dialogo si precisa (al di là di precedenti piú fugaci apparizioni) quello tipicamente metastasiano (e cosí influente sulla successiva poesia fino al Monti) del dialogo che coinvolge il vero destinatario attraverso la formula del «digli», «dille»[13], e che nell’Olimpiade troverà il suo celebre esito poetico piú intenso e melodico, la forza suggestiva del suo rimando di echi melodici e patetici attraverso la catena del parlante, del dialogante intermedio e del destinatario assente, con effetti delicatissimi di vicinanza-lontananza, di dialogo e di separazione.

Ma nell’Issipile tutto risulta assai scialbo e smorzato e i tratti piú interessanti della pietosa Issipile (che par quasi un pallido preannuncio di certi toni della Micol alfieriana nei suoi rapporti col padre) non riescono a costruirsi in figura intera.

Nel piú ricco ed ambizioso Adriano in Siria il Metastasio torna a provare il meccanismo eroico-cortigiano, il tema dell’«anima bella» regale (Adriano, come già Alessandro nell’Alessandro nelle Indie, come poi numerosi sovrani clementi e generosi sino all’assurdo, nei melodrammi tardi, elogio e invito di perfezione ai sovrani moderni anche in rapporto alla loro scelta di cortigiani onesti e al loro rifiuto dei cortigiani falsi e malvagi rappresentati in Aquilio[14]) entro il clima romano imperiale piú adatto alla corte viennese con l’inerente ricorso ai cori solenni e bellicosi-trionfali.

La diretta espressione dell’«eroico» imperiale e la stessa mescolanza di questa componente con quella piú genuina amorosa non raggiunge interi risultati poetici, ma al suo interno il solito intreccio di amori (che sale sin dallo schema del Siroe e culmina nell’Olimpiade) trova un efficace svolgimento a cui gli altri elementi piú velleitari servono di incentivo e di ostacolo sollecitante con un tentativo di realizzazione drammatica piú incarnata e diretta, apprezzabile, ma aliena dal ritmo interno piú vero del melodramma metastasiano che prevede ormai omogenee figure sottoposte al variare di un destino piú mitico e impersonale. E trova un ulteriore arricchimento nella sua espressione diretta, nel suo linguaggio patetico affettuoso, elegiaco[15], specie nella vita del personaggio di Sabina, amante infelice di Adriano (infelice, al solito, finché il provvidenziale destino ristabilisce i diritti del cuore e della virtú), che preannuncia certe battute e moduli dell’Olimpiade, anche se rimane piú sfocata proprio perché a tutto il melodramma manca quel concorso armonico di tutte le voci, di tutti i moduli, di tutti i mezzi tecnici che solo permette il perfetto fluire della poesia metastasiana. E gli stessi materiali mutuati ad altri autori (l’Amalasunta del Quinault, il Cinna del Corneille, l’Alessandro Severo dello Zeno) non trovano vera fusione in una favola tutta rinnovata ed organica come avviene invece nell’Olimpiade.

* * *

È questa la prima ragione dell’eccellenza della Olimpiade che, misurata sulle velleità di maggiore realtà drammatica presenti anche nell’Adriano in Siria, potrebbe apparire troppo fiabesca e smussata e dolciastra, ma che in realtà rappresenta la vera mèta esemplare della via metastasiana centrale.

L’Olimpiade è certo il frutto piú maturo e perfetto dell’assiduo svolgimento metastasiano, del suo progresso tecnico, del suo lavoro sul linguaggio, sullo sviluppo degli affetti e delle situazioni patetiche. Ed essa, illuminata dalla consapevolezza e dalla partecipazione commossa e lucida del poeta a questa sua «favola e sogno», si distingue dalle opere precedenti soprattutto per l’armonia che tutta la unifica e l’articola, per la misura e il concorso coerente di tutti i piú elaborati procedimenti teatrali e poetici e di tutti gli elementi costitutivi del melodramma metastasiano.

Sulle volute nitide e precise del diagramma fabulatorio, sugli scatti perfetti e pur non meccanici di quello che sembra un congegno a orologeria di suprema perfezione (ma il rabesco sottile della trama ha una sua pastosa fluidità, non scopre mai il suo filo metallico e razionalmente calcolatissimo a sorreggere l’aprirsi delle situazioni e del rapporto recitativo-arie), la materia sentimentale-poetica, che si era venuta approfondendo e arricchendo nelle opere precedenti, sgorga e circola senza soste, senza vuoti, senza lungaggini, disponendosi nella solita spirale ondeggiante di peripezie e difficoltà sino al sereno sfocio finale nel dolce porto del lieto fine cosí luminoso e coerente alla tensione patetica-drammatica che lo prepara e ne motiva il lieve empito di soddisfatta, intera risoluzione idillica: vero trionfo della interpretazione metastasiana dell’animo arcadico-razionalistico e del suo gusto rococò non ancora spinto alle sue versioni piú brillanti, piú edonistiche, piú figurative e sensuali. La stessa scelta dell’argomento (ripresa di una vicenda mitica narrata da Erodoto e da Pausania e confortata di elementi di azione tolti dal Torrismondo, dall’Aminta e dal Pastor fido e dal Furioso[16]) appare ben coerente all’ispirazione migliore del Metastasio in questa fase di «sogni e favole» alimentate di sensibilità moderna e sottratte al paragone di una ambientazione storica di cui il Metastasio era incapace pur aspirandovi sulla linea piú astratta della sua poetica.

Qui non la «storia» greca o romana con le sue tentazioni di solennità, di eroismo, di esemplarità classica, ma una zona di mito favoloso e familiare in cui il decoro classico e regale è ridotto ad una stilizzazione sommaria, ad un gradino di livello nobilitante indispensabile alla poetica metastasiana, che cerca soggetti nobili al livello massimo della sua concezione del melodramma-tragedia e della sua stessa visione sociale che ha al suo culmine la corte ed i principi come alla sua base è la semplicità e innocenza pastorale: in mezzo c’è il vuoto, anche se poi i suoi personaggi vivono le aspirazioni e i sentimenti di un ambiente borghese e borghese-aristocratico qual è quello dell’Arcadia e della piú precisa esperienza metastasiana.

E cosí la magnanimità regale e il contrasto dovere regale-affetti privati echeggiano, senza prevaricare, nel finale, attraverso la situazione di Clistene subito risolta dal giudizio e dalla saggezza piú concreta, spregiudicata del popolo (che può assumersi tale funzione regale nella situazione particolare delle feste olimpiche) privo di ogni elemento retorico, grandioso. E la condizione principesca della scena non comporta gli elementi dell’intrigo cortigiano, della lotta di ambizioni e vendette.

Come assenti del tutto sono i personaggi «malvagi», con una perdita di contrasto drammatico e di complessità della rappresentazione umana che si risolve positivamente in un’opera come quella metastasiana. Dato che questa, nella sua formula piú caratteristica, cerca una condizione di omogeneità, di «simpatia» dei personaggi, riserbando al destino la funzione di ostacolo, di rinvio della felicità e dell’accordo di tutti e risolvendo la vita, tutt’altro che monotona e vuota dei personaggi, nelle loro vibrazioni affettuose e dolorose, nel loro tormento e piacere sotto l’inflessione del destino e delle peripezie, nella loro tensione di comunicazione e di affetti.

Tutti i personaggi dell’Olimpiade vivono di una fondamentale gamma di motivi di affetto, fra amore, affetto paterno, amicizia, simpatia della saggezza senile per la fervida vita sentimentale dei giovani: i quali poi costituiscono qui, piú che in ogni altra opera del Metastasio, il centro del fascino del piccolo mondo che si muove nell’opera, e da loro emana l’aria giovanile, fresca, intatta, delicata che pervade tutta l’Olimpiade e ne accresce il lieve impeto generoso e disinteressato, la luce di gentilezza appassionata. Entro cui anche l’altruismo, il sacrificio di sé, la disposizione di «anime belle» di Megacle e Licida, mantengono un che di candido, di autentico, senza cadere nell’elucubrata gara virtuosa dei personaggi pseudoeroici di tanti drammi metastasiani piú tardi. Ché insomma nel Metastasio non era spuria una tensione all’altruismo, alla generosità, ma si faceva retorica, didascalica, convenzionale ed assurda quando pretendeva alla costruzione di personaggi troppo complessi, consapevolmente eroici, come vedremo parlando dei suoi ultimi drammi.

In questa piú precisa scelta della centralità del motivo amoroso in animi giovanili tutto il mondo patetico-idillico del Metastasio rivela piú facilmente la sua centrale forza poetica (anche se poi il Demofoonte ne esprime le pieghe piú dolorose e le risorse piú complesse) e su di questa tutta l’opera trova la sua compattezza e la sua singolare verità sottratta al paragone rischioso della drammaticità e della verisimiglianza a livello tragico.

Una rilettura storica dell’Olimpiade (e meglio una lettura teatrale, quale io feci provare, come ho già detto, da un gruppo di studenti ed attori genovesi in una prova felice che convertí l’iniziale scetticismo degli ascoltatori in una partecipazione convinta all’onda patetico-melodica metastasiana, pur senza musica) convince facilmente della bellezza di questo piccolo capolavoro, tutto filato in un ritmo infallibile, dosato in ogni partecipazione di voce, senza la minima incrinatura fra recitativi ed arie (le arie son qui, persa ogni astratta sentenziosità, lo sviluppo melodico del motivo melodrammatico impostato nel recitativo), concretato in un linguaggio chiaro e tenero, elegante e semplice che corrisponde interamente, nei suoi stessi limiti di profondità, a questo mondo giovanile, candido e patetico, a questa favola ariosa e limpida senza pesantezza e ingorghi, densa di nodi patetici che, d’altra parte, sono impensabili senza la loro preparazione in tutto lo svolgersi dell’opera, cosí fusa ed armonica, assolutamente contraria ad ogni operazione antologica, ad ogni eccezionalità di momenti e di casuali accensioni poetiche secondo l’erratissimo giudizio crociano.

Tutto si svolge in direzione delle situazioni patetiche e al loro succedersi, intensificarsi, distendersi la semplice trama mitica è nettamente funzionale.

Cosí nel primo atto Licida, spiegando ad Aminta il suo piano per ottenere la mano di Aristea (che sarà data al vincitore delle gare olimpiche), svolge la sua situazione complicata fra la passione per Aristea, la speranza nel soccorso dell’amico Megacle e il timore del suo abbandono, finché, al culmine della sua incertezza sull’arrivo dell’amico, questi giunge come evocato e richiesto dal ritmo interno della favola e provoca la distesa esplicazione del tema dell’affetto amichevole. Mentre poi, nell’incontro fra Aristea ed Argene, amante di Licida e travestita da Licori pastorella, le due fanciulle, esponendosi vicendevolmente i loro amori infelici, svolgono la loro tenera poesia amorosa e sul pieno di questa loro espansione si inserisce il re Clistene, padre di Aristea, che annunciando la partecipazione di Licida alle gare e alla conquista di Aristea sollecita l’intreccio della gelosia di Argene e del dolore di Aristea che si crede strappata all’amato Megacle. E, in un pendant senza sforzo, il rinnovato dialogo di Licida e Megacle apre il contrasto fra la letizia del primo, sicuro della vittoria dell’amico che combatterà per lui, e il tormento del secondo preso fra l’amore per Aristea e il dovere di amicizia per Licida. Sicché tutto è preparato per l’acme sentimentale dell’atto quando Megacle si trova con Aristea e deve opporre alla gioia della fanciulla, rassicurata dalla presenza dell’amante e ignara del suo impegno con l’amico, le sue risposte reticenti che inducono nell’animo lieto di Aristea il gelo del dubbio e di un’incomprensibile ansia.

Poi, nel secondo atto, il diagramma patetico sale alla sua voluta piú intensa, quando, dopo una lenta, graduata preparazione, terminate le gare in cui Megacle sotto il nome di Licida ha ottenuto la vittoria, Megacle si trova nuovamente solo con Aristea ed è costretto a rivelarle la situazione disperata del loro amore. E qui, nella scena nona e decima, la poesia metastasiana trova il suo esito piú alto e perfetto, la zona piú densa e limpida della poesia amorosa fra iniziale, illusa gioia e turbamento, disperazione, abbandono. Zona però arricchita a sua volta da tutta l’atmosfera calda di affetti delicati e gentili che circola in tutta l’opera.

L’acutissimo razionalismo metastasiano sorregge la lunga e complessa «catena» di affetti graduati e scavati sino al tormento (e pur non sofistici e assurdi), illuminati dal calore giovanile dei personaggi e dalla fine intensità del linguaggio mai cosí melodico e insieme cristallino, mai cosí ricco di movimenti, di impostazioni, di cadenze nel giuoco degli endecasillabi e dei settenari che assecondano le esitazioni e le vibrazioni del cuore: e fan capire assai bene – al di là delle discussioni sui giudizi metastasiani del Leopardi – la simpatia di questo per la poesia idillico-elegiaca del Metastasio, per i suoi recitativi appassionati e teneri[17], per la sua sintassi melodica e salda, per il suo linguaggio eletto e familiare, che rinnova espressioni fra letterarie e comuni in forza del loro impeto affettuoso: «luce degli occhi miei», «mia perduta speranza»...

Impostato sulle espressioni di letizia della ignara Aristea che crede Megacle effettivo vincitore e suo sposo

(Al fin siam soli:

potrò senza ritegni

il mio contento esagerar: chiamarti

mia speme, mio diletto,

luce degli occhi miei...),

il dialogo si snoda nel contrasto fra la prima battuta di Megacle che vuol frenare la gioia dell’amata

(No, principessa

questi soavi nomi

non son per me: serbali pure ad altro

piú fortunato amante)

e la risposta di Aristea che non comprende e volge le parole di Megacle ad un senso di scherzo di innamorati:

E il tempo è questo

di parlarmi cosí? Giunto è quel giorno...

Ma semplice ch’io son: tu scherzi, o caro,

ed io stolta m’affanno.

Poi la catena degli affetti sale lentamente alla spiegazione e alla disperazione attraverso le domande di Megacle che, puntando sulla generosità di Aristea e sull’immagine alta che di lui essa possiede, presenta a lei, tremante di ansia, le definizioni opposte della lealtà in lui da lei amata e di una sua possibile scelleratezza, muovendo insieme tutto il gentile mondo di affetti puri, nobili, che il Metastasio aveva colto nella giovanile disposizione dei suoi personaggi senza, fortunatamente, svolgerlo nelle forme grandiose, eroiche dei suoi ultimi drammi.

Megacle: Ma coraggio! Aristea. L’alma prepara

a dar di tua virtú la prova estrema

Aristea: Parla. Aimé! che vuoi dirmi? Il cor mi trema.

Megacle: Odi. In me non dicesti

mille volte d’amar, piú che ’l sembiante,

il grato cor, l’alma sincera, e quella,

che m’ardea nel pensier, fiamma d’onore?

Aristea: Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti e tale

ti conosco, t’adoro.

Megacle: E, se diverso

fosse Megacle un dí da quel che dici,

se infedele agli amici

se spergiuro agli dei, se, fatto ingrato

al suo benefattor, morte rendesse

per la vita che n’ebbe, avresti ancora

amor per lui? lo soffriresti amante?

l’accetteresti sposo?

Aristea: E come vuoi

ch’io figurar mi possa

Megacle mio sí scellerato?

Megacle: Or sappi

che per legge fatale,

se tuo sposo divien, Megacle è tale.

Poi la spiegazione provoca una nuova onda di affetti fra la fermezza disperata di Megacle, irrorata di espressioni di amore, e la resistenza di Aristea che trova gli accenti piú appassionati, sin che la rivelazione che quello è l’ultimo addio (Metastasio poeta degli addii, dei «mai piú» la cui forza supera quella del ritrovarsi e dell’unione felice pur indispensabile al suo melodramma) provoca lo svenimento di Aristea e l’affannato, confuso monologo del disperato Megacle e – sull’arrivo di Licida e sull’esitazione di Megacle fra decisione di partenza e volontà di consolazione e di ultimo colloquio con Aristea – la celebre aria. Certo la piú bella del Metastasio, la piú complessa, che serba la forza di svolgimento del recitativo, della sua disposizione di dialogo, qui raddoppiato nel rimando incantevole al personaggio svenuto, e la esalta in un canto limpido e vibrante che lascia cadere le ultime note, disposte in una successione di ripetizione intensificativa, in una loro assolutezza di allusioni alla situazione patetica precisa: l’assolutezza del bene perduto, la perentorietà del distacco, lo struggente sentimento della disperata solitudine in cui l’amato rimane:

Io vado... (tornando indietro)

Deh pensa ad Aristea (partendo) (Che dirà mai

quando in sé tornerà? (si ferma) Tutte ho presenti,

tutte le smanie sue) Licida, ah! senti.

Se cerca, se dice:

«L’amico dov’è?»

«L’amico infelice,

rispondi, partí».

Ah no! Sí gran duolo

non darle per me:

rispondi, ma solo:

«Piangendo partí».

Che abisso di pene,

lasciare il suo bene,

lasciarlo per sempre,

lasciarlo cosí.

Certo non è questa la grande poesia tragica dell’addio alfieriano di Antigone ad Argia e tutto vive entro un cerchio di patetismo e di gracile grazia, di verità sentimentale su di uno schermo di favola, ma è pure poesia e non solo pretesto di musica e canto aggiuntivo, o «canto provvisorio» per dirla col Flora[18].

E, nel cammino del Metastasio, quale distanza dalla partenza di Enea nella Didone abbandonata, dalla sua perplessità cosí schematica e, alla fine, marionettistica! Né l’atto si conclude su queste scene, ché il tormento di Megacle e di Aristea si comunica a Licida, che ha ora compreso le conseguenze del suo inutile amore, apprende il suicidio dell’amico, si trova esposto alla vergogna della rivelata sua falsa vittoria. E, nel monologo finale dell’atto, si svolge un folto ingorgo di sentimenti contrastanti che portano nel centro dell’opera una nuova acme di patetismo disperato, l’ombra scura di un tumulto di affetti che il destino intensifica prima del lento distendersi della felicità su tutti gli angoli oscuri del cielo turbato.

Con questo ferro, indegno! (snuda la spada)

il sen ti passerò... Folle! che dico?

Che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io:

Io son lo scellerato. In queste vene

con piú ragion l’immergerò. Sí, mori,

Licida sventurato!... Ah! Perché tremi

timida man? Chi ti ritiene? Ah! questa

è ben miseria estrema! Odio la vita,

m’atterrisce la morte; e sento intanto

stracciarmi a brano a brano

in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,

tenerezza, amicizia,

pentimento, pietà, vergogna, amore

mi trafiggono a gara. Ah! chi mai vide

anima lacerata

da tanti affetti e sí contrari! Io stesso

non so come si possa

minacciando tremare, arder gelando,

piangere in mezzo all’ire,

bramar la morte e non saper morire.

Gemo in un punto e fremo:

fosco mi sembra il giorno,

ho cento larve intorno,

ho mille furie in sen.

Con la sanguigna face

m’arde Megera il petto;

m’empie ogni vena Aletto

del freddo suo velen. (parte)

Ché nel terzo atto il folle tentativo di regicidio di Licida sollecita un nuovo intreccio di situazioni e vibrazioni patetiche. Sull’eco delle sobrie cadenze del coro che accompagna l’azione[19] si svolgono la situazione di Clistene che avverte in sé i presentimenti del suo legame paterno con il condannato Licida (l’espressione di moti inconsci del sangue, di presentimenti di legami di affetti, della voce della natura è un’altra delle conquiste psicologico-poetiche metastasiane[20]) e la situazione del commiato supremo fra i due amici che trova nuove note poetiche intense nelle parole di Megacle:

Ma molto innanzi

Licida, non andrai: noi passeremo

ombre amiche indivise il guado estremo.

Poi tutto volge alla soluzione felice: Argene si rivela per principessa e promessa sposa di Licida, questi è identificato come figlio di Clistene e, sulla ultima increspatura drammatica del persistere di questo nella condanna del figlio, la voce risolutiva della saggezza popolare, voce della natura, della ragione e del destino provvidenziale, spiana ogni intralcio al lieto fine radioso e assoluto.

La morale cortigiana della Licenza non è penetrata nel corpo vero dell’opera e l’elogio delle «anime grandi» che «a vantaggio di tutti il Ciel produce» rimane estraneo al sottile e delicato altruismo, incentivo del patetismo e della poesia degli affetti, non deviazione e alterazione di questa nelle forme astratte e pseudograndiose degli ultimi drammi.

* * *

Anche il Demofoonte corrisponde a questo momento di supremo equilibrio creativo, e se l’armonia dell’Olimpiade è piú circolare e sicura, e la sua esemplarità in tal senso può dirsi assoluta, nella nuova opera di quell’anno felice il Metastasio ha immesso una forza patetica ancora maggiore, ha tentato, riuscendovi, di muovere un diagramma melodrammatico piú complesso, di portare, nel giuoco emotivo del destino e dei suoi riflessi nel cuore dei personaggi e nella linea dell’azione, un’oscillazione piú violenta che fa affiorare momenti ed elementi piú drammatici, risuonare echi piú profondi della sua elegia vitale sin quasi al limite di rottura del suo equilibrio interiore e compositivo, senza però superare i margini di riassorbimento del drammatico in melodrammatico e dando al lieto fine come un fulgore piú vivido e luminoso. Mentre, se pure non vi raggiunge quel perfetto accordo di voci che egli attinse nel duetto dell’addio dell’Olimpiade, seppe caricare i due protagonisti di un impeto affettuoso piú complesso e vario, quasi piú moderno, borghese e drammatico: l’amore istintivo e vittorioso provato non solo sul contrasto di ostacoli esterni, ma addirittura sull’orrore dell’incesto che, dopo aver condotto alla disperazione i due personaggi, non riesce però a smentire la forza istintiva della passione, la giustezza e la santità della natura. Cosí come seppe creare un piú complesso contrappunto fra la vicenda amorosa dei protagonisti, piú alta, matura, sofferta e provata, e quella piú esile e gentile di Cherinto e Creusa che, nella sua ingenuità e nel timbro piú giovanile dei due personaggi minori (l’appassionatezza piú avventata di Cherinto e la natura capricciosa, altera, risentita e sostanzialmente generosa di Creusa), porta nel melodramma un’aria di freschezza incantevole con qualche iridatura di lieve e sottile comicità entro una versione meno profonda, ma non perciò meno schietta, del tema dell’invincibilità e della libertà dell’amore.

Al solito tutto ciò si sviluppa entro una finzione a suo modo assoluta, con un ricorso doppio al procedimento dell’agnizione entro una favola che occorre accettare dall’interno della sua logica, ma cosí insaporita di realtà di affetti e di stati d’animo, cosí perfettamente funzionale alla linea interna dell’oscillazione del destino e delle situazioni, cosí fertile di situazioni e di vivi pretesti di tensione, di sospensione drammatica, di brivido rasserenato, che l’improbabilità esterna si risolve in una perfetta coerenza e organicità interna, confermando la vittoria del poeta che crea dimensioni di verità sentimentale proprio accettando al massimo il piano del verisimile «teatrale», la logica di una favola che ha in sé stessa le sue ragioni e la sua realtà. Sicché al lettore non resta che prendere o lasciare sin dall’inizio. Ma se accetta il giuoco iniziale egli è immesso in una linea poetica a suo modo saldissima e non può ridestarsi al paragone con la verità esterna se non quando il giuoco è finito e quando, accettata la convenzione melodrammatica, egli si trova arricchito dall’esperienza che ha fatto di un mondo poetico-storico cosí pienamente espresso. «Sogni e favole fingo», ma in quei sogni e in quelle favole circola pure la vita, una vita storica e poetica anche se trasferita in un regno illusorio ma lucido e vitale, che è il corrispettivo piú alto della tendenza poetica di un’epoca razionalnaturale, ibrida di fantasia e ragione, ma in cui questi elementi hanno trovato una loro dosatura e fusione eccellente entro una sicura abilità teatrale. E se si potrà provare il desiderio di piú fantasia e di piú verità (e il secolo stesso seguí questo bisogno nelle sue nuove esigenze fra illuminismo e preromanticismo), non si può negare realtà e dignità poetica a questo mondo se non rifiutandolo in blocco (come si poté in una diversa situazione storica), ma non senza la perdita di un’esperienza che ha avuto la sua realtà e la sua funzione. E che, a ben guardare, ha pure avuto (si pensi ancora una volta al Leopardi e alla sua ammirazione tutt’altro che irrazionale per Metastasio) un suo posto nella storia della poesia e della sensibilità, ha nutrito ed educato generazioni intere e introdotto nella poesia e nel linguaggio poetico elementi incancellabili di densità e finezza affettiva pur nella versione particolare del patetico e in una dimensione che tocca il dramma senza risolversi in aperta, radicale tragedia.

Da quest’ultimo punto di vista è essenziale per la diagnosi definitiva della poesia metastasiana tutto lo sviluppo del Demofoonte, e soprattutto la sua ultima parte, in cui si addensa lo sforzo piú drammatico dell’opera e il diagramma melodrammatico si complica, si aggroviglia e si scioglie per due volte con un’oscillazione insolitamente piú energica; con un’alternanza di felicità e di orrore che rappresenta il massimo di tensione cui il Metastasio poteva giungere senza infrangere la sua fondamentale misura e i suoi stessi ideali poetici, umani, pedagogici e socievoli.

Linea che, pur convenientemente coinvolgendo tutti i personaggi, passa soprattutto per i due protagonisti: con un meno di armonia rispetto all’Olimpiade, con un piú di varietà e di toni sulla base di una certa omogeneità non perduta.

E questi appaiono, fra i personaggi metastasiani, forse i meglio impostati, con il loro incontro di giovinezza e di maturità, di serietà e di slancio, di passione amorosa e di fedeltà coniugale insaporita dal carattere della sua segretezza, in un’atmosfera che, pur colorata dalla loro qualità principesco-mitica e dalla loro dignità teatrale-sociale (cui il Metastasio e la sua epoca non avrebbero mai saputo rinunciare temendo di cadere nel basso, nel plebeo, nella sconvenienza «comica», cosí come non avrebbero accettato un soggetto moderno), ha caratteri chiaramente piú moderni, borghesi, familiari. Solo il mito poteva rendere accettabile la singolare vicenda con l’iniziale impegno di sacrificio di una vergine, solo la finzione regale poteva permettere il giuoco delle agnizioni che coinvolge la soluzione felice della situazione amorosa centrale nello spostamento delle vere condizioni dinastiche della famiglia regale. Ma il vero dramma è un dramma amoroso e privato, un dramma di rapporti affettivi coniugali a cui è essenziale lo scavo maggiore dei due protagonisti, la loro personificazione piú del solito particolareggiata in una loro maggiore maturità e riflessività malinconica e saggia, in una loro esperienza di affetti già provati che porta una luce diversa, piú pacata e piú dolorosa insieme, sul loro rapporto di affetti consolidato dal matrimonio segreto e dal frutto innocente del loro amore.

Soprattutto caratterizzata piú di ogni altro personaggio metastasiano risulta Dircea, con la purezza e la sua esperienza coniugale, con una voce femminile come piú calda e pacata, con la sua decisione matura e il senso dei limiti della sua forza[21], oppressa dal peso di una colpa non sua[22], capace di un linguaggio intenso e profondo in cui vibra un’esperienza piú matura di quella che poteva vivere in altre incantevoli figure metastasiane di adolescenti, e con una forza di generosità piú accordata ai precisi affetti di sposa e madre (non l’«anima bella» con la sua disponibilità assoluta e alla fine assurda che finirà piú tardi per ridurre ad astratta virtú la disponibilità generosa dei personaggi metastasiani).

Come nella scena sesta dell’atto secondo in cui Dircea, avviata alla morte che allora appare inevitabile, visto allontanarsi Timante che è deciso a ribellarsi al padre, ferma la rivale Creusa e le espone la sua situazione e le chiede pietà per lo sposo, la cui salvezza è anche la salvezza del figlio.

Dircea:

Fermati! Ah! non m’ascolta. Eterni Dei,

custoditelo voi. S’ei pur si perde,

chi avrà cura del figlio? In questo stato

mi mancava il tormento

di tremar per lo sposo. Avessi almeno

a chi chieder soccorso... Ah, principessa!

Ah, Creusa, pietà! Non puoi negarla;

la chiede al tuo bel core,

nell’ultime miserie una che muore.

Creusa:

Chi sei? Che brami?

Dircea:

Il caso mio già noto

pur troppo ti sarà. Dircea son io;

vado a morir; non ho delitti. Imploro

pietà, ma non per me. Salva, proteggi

il povero Timante. Egli si perde

per desio di salvarmi...

La sua voce affettuosa ed elegiaca senza eccesso s’incontra, nel suo tono femminile, con quella piú virile e piú sdegnosa, ma pur consapevole e malinconica, di Timante in nuove gare di amore altruistico, ma come contraddistinta da una luminosità piú pacata e profonda che induce, nella sua forza patetica, una maggior persuasione di verità e lentamente pervade (il «contagio» del patetico è tanto piú persuasivo poeticamente del dubbio contagio dell’eroico esercitato nel Regolo) anche gli altri personaggi, come nella fine della scena decima dell’atto secondo:

Dircea:

Non sdegnarti,

signor, con lui: son io la rea: son queste

infelici sembianze. Io fui che troppo

mi studiai di piacergli; io lo sedussi

con lusinghe ad amarmi; io lo sforzai

al vietato imeneo con le frequenti

lagrime insidiose.

Timante:

Ah! non è vero:

non crederle, signor. Diversa affatto

è l’istoria dolente. È colpa mia

la sua condiscendenza. Ogni opra, ogni arte

ho posta in uso. Ella da sé lontano

mi scacciò mille volte; e mille volte

feci ritorno a lei. Pregai, promisi,

costrinsi, minacciai. Ridotto al fine

mi vide al caso estremo: in faccia a lei

questa man disperata il ferro strinse,

volli ferirmi; e la pietà la vinse...

Dircea:

E pur...

Demofoonte:

Tacete! (un non so che mi serpe

di tenero nel cor, che in mezzo all’ira

vorrebbe indebolirmi)...

La forza patetico-drammatica addensata lentamente nei primi due atti trova poi il suo culmine nel bellissimo atto terzo, limpido nella sua articolazione piú energica e scosso come da un impeto piú amaro in cui il destino appare in un’estrema configurazione di capriccio crudele, di crudele mentita risoluzione per rivelare solo alla fine il suo volto placato e provvidenziale.

Aperto dai toni disperati di Timante che potrebbe salvarsi solo rinunciando alla sposa e dal suo monologo pessimistico sulla sorte infelice degli uomini (e quindi su di una base cupa e dolorosa), questa piega pessimistica che sta per culminare nella decisione suicida di Timante viene improvvisamente interrotta dall’annuncio del perdono di Demofoonte intenerito alla vista del fanciullino, figlio di Timante e Dircea. Ma, con súbita alternanza, quando l’onda del piacere e della felicità ha riacquistato la sua forza maggiore (ché Timante cede al fratello il trono e Creusa), la sorte si rovescia di nuovo impetuosamente con la rivelazione che Dircea è anch’essa figlia di Demofoonte e sorella di Timante.

L’eccesso dell’incesto (che non toccherà visibilmente Dircea per la bienséance arcadica che non consente questa contaminazione estrema del suo animo casto) sconvolge Timante che, in un nuovo e piú espanso monologo (scena quarta), dà voce all’orrore di una situazione innocente-colpevole insanabile perché già realizzata, estrema possibilità dell’infelicità umana (Alfieri ne farà l’estrema configurazione di un delitto degli dei e della contaminazione della natura nella innocenza della purezza giovanile).

E la poesia metastasiana vi raccoglie le sue note piú tetre, le immagini piú luttuose, i ritmi piú violenti e tempestosi pur senza rompere l’onda cristallina della sua melodia e della sua chiarezza:

Misero me! qual gelido torrente

mi ruina sul cor! Qual nero aspetto

prende la sorte mia! Tante sventure

comprendo al fin. Perseguitava il cielo

un vietato imeneo. Le chiome in fronte

mi sento sollevar. Suocero e padre

mi è dunque il re? Figlio e nepote Olinto?

Dircea moglie e germana? Ah! qual funesta

confusion d’opposti nomi è questa!

Fuggi, fuggi, Timante! Agli occhi altrui

non esporti mai piú. Ciascun a dito

ti mostrerà. Del genitor cadente

tu sarai la vergogna; e quanto, oh Dio,

si parlerà di te! Tracia infelice,

ecco l’Edipo tuo[23]. D’Argo e di Tebe,

le furie in me tu rinnovar vedrai.

Ah, non t’avessi mai

conosciuta, Dircea! Moti del sangue

eran quei ch’io credevo

violenze d’amor. Che infausto giorno

fu quel che pria ti vidi! I nostri affetti

che orribili memorie

saran per noi! Che mostruoso oggetto

a me stesso io divengo! Odio la luce;

ogni aura mi spaventa; al piè tremante

parmi che manchi il suol; strider mi sento

cento folgori intorno; e leggo, oh Dio!

scolpito in ogni sasso il fallo mio.

E su questo motivo, che Timante non chiarisce agli altri, si snodano varie scene in cui l’incesto funziona come se fosse vero (creando dunque nelle volute del melodramma il dramma piú intenso di cui il Metastasio fosse capace), provocando negli altri personaggi un turbamento profondo, capovolgendo, per Timante, in orrore ogni moto tenero di Dircea, ogni sollecitazione del proprio affetto coniugale e paterno, portando Demofoonte, Cherinto, Dircea, Creusa all’estremo di un terrore piú pauroso perché per loro inspiegabile, sino all’aria di Dircea impietrita dal dolore (fine della scena settima): aria siglata dal movimento di sequenza rapida e serrata delle negative con un espediente nuovo che dimostra la ricchezza e varietà di movimenti sentimentali anche nelle arie:

Non ho piú lagrime,

non ho piú voce,

non posso piangere,

non so parlar.

E se Creusa nel suo monologo della scena ottava rivela l’invincibile tendenza metastasiana a superare il dramma almeno nel presentimento necessario del lieto fine, e del riequilibramento di una situazione appunto perché estrema (con quanto di inevitabilmente meccanico tutto ciò comporta nella prospettiva ottimistica-provvidenziale e nell’incapacità alla durata del tragico)[24], ancora nella scena nona il Metastasio sa trarre dalla situazione drammatica un ultimo acquisto poetico.

Quando, sull’equivoco dell’interpretazione che Cherinto dà della sua proclamazione di reità (Cherinto crede che egli non sappia consolarsi di aver offeso il padre), Timante ribadisce la sua colpa commisurandola soprattutto alla sua incapacità di dimenticare Dircea, di rompere il nodo di amore rafforzato dalle sventure, dalle memorie, dall’abitudine:

Son reo pur troppo; e se fin or nol fui,

lo divengo vivendo. Io non mi posso

dimenticar Dircea. Sento che l’amo;

so che non deggio. In cosí brevi istanti

come franger quel nodo,

che un vero amor, che un imeneo, che un figlio,

strinser cosí? Che le sventure istesse

resero piú tenace? e tanta fede?

e sí dolci memorie?

e sí lungo costume?

Dove il poeta riesce ad esprimere alcuni dei moti piú sottili di una psicologia amorosa generale entro la comprensione della sua situazione estrema e a far vivere in essa la suprema fede nella invincibilità dell’amore malgrado la condanna della ragione e della morale. Anche se a questo punto egli si affretterà a riportare tutto nel solco piú normale e nel solco del melodramma con l’ultimo colpo di scena che rivela l’errore della prima agnizione e restituisce all’amore di Dircea e Timante la sua liceità e la sua santità naturale e sociale. Il lieto fine si esalta nella proclamazione di un cielo che destina sempre per il bene e che è superiore ad una sorte opaca se ha saputo, nelle sventure, creare nuovi vincoli di affetti fra tutti i personaggi[25], e in un’abbondanza di «teneri trasporti» appagati e felici.

Anche se il coro da questo melodramma piú «drammatico» trarrà una conclusione piú ambigua e complessa, quasi il corrispettivo di una maggiore meditazione sul tema centrale del rapporto dolore-piacere:

Par maggiore ogni diletto,

se in un’anima si spande

quand’oppressa è dal timor.

Qual piacer sarà perfetto,

se convien, per esser grande,

che cominci dal dolor?

«Piacer figlio d’affanno», impossibilità della perfezione del piacere: non tutto, malgrado l’incrollabile fiducia edonistico-ottimistica, era poi cosí pacifico ed ovvio nell’anima metastasiana. L’idillio era insaporito da increspature elegiache che proprio nel Demofoonte avevano raggiunto la loro massima forza, tanto da far pensare astrattamente che il Metastasio si trovasse ora sull’orlo della tragedia e se ne ritraesse volontariamente: mentre, in realtà, da questa base piú schietta, egli trasferí la sua aspirazione tragica sulla via già tentata nel Catone in Utica con tutti gli equivoci e i limiti perentori che rivelerà la prova dell’Attilio Regolo.

Mentre nella compagine intera del Demofoonte andrà, come accennavo in principio, pur ben calcolata, e molto positivamente, tutta la vicenda di Cherinto e Creusa che la arricchisce di freschezza, con la sua vena di toni patetico-ironici, e riequilibra ulteriormente la natura melodrammatica dell’opera. Essenziale, e tutta da rileggere, come ricca impostazione dei due personaggi minori e svolgimento della loro caratterizzazione ingenua e giovanile fra patetismo e ironia (scuola indubbia per il Goldoni e ripresa della vena comica metastasiana osservata all’inizio della sua attività melodrammatica fra l’aperta commedia dell’Impresario delle Canarie e certe mosse comiche della Didone), è la scena quinta del primo atto[26].

Sullo sfondo lieto del porto in festa si svolge questa sottile, delicatissima commediola patetica con il suo giuoco di alternarsi sfasato dei pronunciamenti d’amore dei due personaggi, con l’avanzarsi e indietreggiare di Cherinto (piú ingenuo e appassionato e contraddistinto da un linguaggio ingenuamente e parodisticamente retorico) a cui corrispondono le ripulse falsamente sdegnate e le sollecitazioni patetiche e maliziose (quando l’innamorato si fa troppo timido) di Creusa, incantevole figurina di fanciulla capricciosa, altera, presa, fra civetteria e istinto, nel giuoco patetico. E tutta la scena è irrorata di una luce di affettuosa ironia e di fascino, di simpatia del poeta per queste sue creature d’adolescenti e la loro incantevole vitalità istintiva ed elegante. E il giuoco si svolge fra partecipazione e distacco, fra impiego serio del suo solito linguaggio patetico e una sfumatura di parodia connessa all’ingenua retorica dei personaggi.

Creusa:

Ma che t’affanna, o prence?

Perché mesto cosí? Pensi, sospiri,

taci, mi guardi, e, se a parlar t’astringo

con rimproveri amici,

molto a dir ti prepari, e nulla dici.

Dove andò quel sereno

allegro tuo sembiante? ove i festivi

detti ingegnosi? In Tracia tu non sei

qual eri in Frigia. Al talamo le spose

in sí lugubre aspetto

s’accompagnan fra voi? Per le mie nozze

qual augurio è mai questo?

Cherinto:

Se nulla di funesto

presagisce il mio duol, tutto si sfoghi,

o bella principessa,

tutto sopra di me. Poco i miei mali

accresceran le stelle. Io de’ viventi

già sono il piú infelice.

Creusa:

E questo arcano

non può svelarsi a me? Vaglion sí poco

il mio soccorso, i miei consigli?

Cherinto:

E vuoi

ch’io parli? Ubbidirò. Dal primo istante...

Quel giorno... Oh Dio! no, non ho cor! Perdona;

meglio è tacer: meriterei, parlando,

forse lo sdegno tuo.

Creusa:

Lo merta assai

già la tua diffidenza. È ver che al fine

io son donna, e sarebbe

mal sicuro il segreto. Andiamo, andiamo.

Cherinto:

Fermati! Oh numi!

Parlerò: non sdegnarti. Io non ho pace;

tu me la togli; il tuo bel volto adoro;

so che l’adoro in vano,

e mi sento morir. Questo è l’arcano.

Creusa:

Come? che ardir!

Cherinto:

Nol dissi

che sdegnar ti farei?

Creusa:

Sperai, Cherinto,

piú rispetto da te.

Cherinto:

Colpa d’amore.

Creusa:

Taci, taci: non piú. (volendo partire)

Cherinto:

Ma, già che a forza

tu volesti, o Creusa,

il delitto ascoltar, senti la scusa.

Creusa:

Che dir potrai?

Cherinto:

Che di pietà son degno,

s’ardo per te; che, se l’amarti è colpa

Demofoonte è il reo. Doveva il padre,

per condurti a Timante,

altri sceglier che me? Se l’esca avvampa,

stupir non dee chi l’avvicina al fuoco.

Tu bella sei; cieco io non son. Ti vidi,

t’ammirai, mi piacesti. A te vicino

ogni dí mi trovai. Comodo e scusa

il nome di congiunto

mi diè per vagheggiarti; e me quel nome,

non che gli altri, ingannò. L’amor, che sempre

sospirar mi facea d’esserti accanto,

mi pareva dovere; e mille volte

a te spiegar credei

gli affetti del german, spiegando i miei.

Creusa:

(Ah! me n’avvidi). Un tale ardir mi giunge

nuovo cosí, che istupidisco.

Cherinto:

E pure

talor mi lusingai che l’alme nostre

s’intendesser fra loro

senza parlar. Certi sospiri intesi,

un non so che di languido osservai

spesso negli occhi tuoi, che mi parea

molto piú che amicizia.

Creusa:

Orsú! Cherinto,

della mia tolleranza

cominci ad abusar. Mai piú d’amore

guarda di non parlarmi.

Cherinto:

Io non comprendo...

Creusa:

Mi spiegherò. Se in avvenir piú saggio

non sei di quel che fosti infino ad ora,

non comparirmi innanzi. Intendi ancora?

Cherinto:

T’intendo, ingrata!

vuoi ch’io mi uccida:

sarai contenta,

m’ucciderò.

Ma ti rammenta

che a un’alma fida

l’averti amata

troppo costò. (vuol partire)

Creusa:

Dove? Ferma!

Cherinto:

No, no! troppo t’offende

la mia presenza. (in atto di partire)

Creusa:

Odi, Cherinto.

Cherinto:

Eh! troppo

abuserei, restando,

della tua tolleranza. (come sopra)

Cherinto:

E chi fin d’ora

t’impose di partir?

Cherinto:

Comprendo assai

anche quel che non dici.

Creusa:

Ah, prence! ah, quanto

mal mi conosci! Io da quel punto... (Oh numi!)

Cherinto: Termina i detti tuoi.

Creusa:

D a quel punto... (Ah che fo!) Parti, se vuoi.

Cherinto:

Barbara! partirò; ma forse... Oh stelle!

Ecco il german.

Quando poi, inseriti nella vicenda principale, Creusa si sdegna femminilmente e principescamente per l’indifferenza che le dimostra Timante, sposo regale destinatole e che pur essa non ama, e ne chiederà a Cherinto la morte, come prova del suo amore e riparazione del proprio orgoglio ferito, Cherinto, per quanto inorridito, rimarrà come affascinato da questa nuova manifestazione della personalità risentita della donna amata. E ne andrà vagheggiando la fierezza e il «fasto», la bellezza del volto nei contrastanti stati d’animo e ingenuamente la paragonerà alle dee greche, piú che per «verisimiglianza» mitologica, con il gusto di uno scolaro settecentesco avvezzo alla esemplarità retorica del mito classico:

Voler ch’io stesso

nelle fraterne vene... Ah! che in pensarlo,

gelo d’orror. Ma con qual fasto il disse!

Con qual fierezza! E pur, quel fasto e quella

sua fierezza m’alletta: in essa io trovo

un non so che di grande,

che, in mezzo al suo furore,

stupir mi fa, mi fa languir d’amore.

Il suo leggiadro viso

non perde mai beltà:

bello nella pietà,

bello è nell’ira.

Quand’apre i labbri al riso,

parmi la dea del mar;

e Pallade mi par,

quando s’adira.[27]

Mentre Creusa trova un suo sviluppo ulteriore e come un approfondimento piú serio delle sue qualità istintive di generosità e di attrazione per cose belle e nobili (la sua riserva giovanile di purezza entro la malizia e l’alterigia principesca) nelle scene in cui essa è messa di fronte, per la prima volta, al dramma di Dircea e di Timante e rimane fra turbata e affascinata da questa dimensione prima a lei ignota, e soprattutto dalla bellezza di Dircea accresciuta dalla sua infelicità e dalla sua fedeltà, e converte, secondo la sua natura impulsiva, lo sdegno per la rivale e per il promesso sposo in pietà e in volontà di aiuto:

Che incanto è la beltà! Se tale effetto

fa costei nel mio cor, degno di scusa

è Timante, che l’ama. Appena il pianto

io potei trattener. Questi infelici

s’aman da vero. E la cagion son io

di sí fiera tragedia? Ah! no: si trovi

qualche via d’evitarla...[28]

E subito dopo, nella nuova ansia di verità e di generosità che l’ha invasa, sarà portata a rivelare il suo vero amore a Cherinto in forma piú incerta e interrotta dal ritegno e dall’alterigia che la fa sempre superiore al piú candido innamorato

(Ma donde il sai

ch’io son tiranna? È questo cor diverso

da quel che tu credesti.

Anch’io... Ma va. Troppo saper vorresti).[29]

Sarà portata a rivelarlo a se stessa in maniera piú aperta e pure involta in esitazioni e dubbi melodrammatici che involgono un celebre motivo dell’Aminta. E il Metastasio lo lascia qui cadere piú facilmente entro la dimensione lievemente comica di questo ritegno principesco che ripercuote in forme piú tenui e sorridenti il tema della Didone «sono donna e son regina».

Se immaginar potessi,

Cherinto, idolo mio, quanto mi costa,

questo finto rigor, che sí t’affanna

ah! forse allor non ti parrei tiranna.

È ver che di Timante

ancor sposa non son; facile è il cambio;

può dipender da me. Ma, destinata

al regio erede, ho da servir vassalla

dove venia a regnar? No, non consente

che sí debole io sia

il fasto, la virtú, la gloria mia.

Felice età dell’oro,

bella innocenza antica,

quando al piacer nemica

non era la virtú!

Dal fasto e dal decoro

noi ci troviamo oppressi,

e ci formiam noi stessi

la nostra servitú.[30]

E se nello svolgimento della parte piú drammatica dell’opera la presenza di Cherinto e di Creusa ovviamente si riduce ad una partecipazione fra stupita e volenterosa, piú legata ai momenti di fiducia che a quelli di disperazione (e ad essi, come abbiamo visto, si affidano le buone notizie o il presentimento di un lieto fine), nel finale le loro voci giovanili si inseriscono con brevissime battute di schermaglia, insaporite di lieve malizia e di lieve comicità, e siglano la variante piú ingenua e sorridente della comune felicità.

Demofoonte: (a Creusa)

In Cherinto io t’offro

ed il figlio e l’erede.

Cherinto:

Il cambio forse

spiace a Creusa.

Creusa:

A quel che il Ciel destina

in van farei riparo.

Cherinto:

Ancora non vuoi dir ch’io ti son caro?

Creusa:

L’opra stessa il dirà.

Senza ritornare all’aborrita mescolanza barocca di comico e di drammatico, il Metastasio era riuscito nel Demofoonte ad arricchire il melodramma con questo contrappunto delicato e vivace, in un’epoca in cui tutte le sue forze migliori sono entrate in atto e al loro livello migliore di ispirazione e di tecnica. E del resto si pensi alla vicinanza della piccola e fine commedia Le cinesi, del ’35, e all’appartenenza della Libertà allo stesso anno felice dell’Olimpiade e del Demofoonte.

* * *

A questo periodo felice appartengono anche, intorno ai capolavori melodrammatici, numerose cantate che, su di una direzione minore intermedia fra rappresentazione e lirica, dense di spunti musicali e di trama e stimolo sentimentale (che le resero care al Beethoven degli Italienische Gesänge[31]), e caratterizzate, rispetto ai melodrammi, da una maggiore espansione immaginosa e melodica in quelli riassunta con maggior sobrietà e funzionalità: un esercizio assiduo e importante sia per alcuni suoi risultati (come, fra quelle romane, la Tempesta, La pesca, o, fra quelle viennesi, Il primo amore, Amor timido, la XXII, la XXIV), sia per certi spunti di gusto piú chiaramente figurativo-rococò (Il nido degli amori) o di scherzo galante con piú aperti avvii di sensistica descrittiva (La cioccolata, Il tabacco, che mostrano la ricchezza e alacrità di inventiva e di gusto di questo periodo), sia come riserva, come dicevo, di piú aperta immaginosità-melodia sul tipo di questa aria della Pesca:

E le umidette foglie

de’ tremoli cristalli

di pallide conchiglie,

di lucidi coralli

le colmeranno il sen.

Ma soprattutto appartiene a questo periodo felice il capolavoro canzonettistico del Metastasio. La Libertà è un vero e proprio piccolo melodramma trasportato nelle forme della canzonetta arcadica per lo piú cosí incapace di precise svolte, di precisi limiti, di precisa, anche se ricercata, articolazione di scena e situazione.

Mentre nella canzonetta metastasiana una sicura trama di svolgimento di situazione psicologica (suddivisa in tre parti: la prima, fino alla strofe 6a, che svolge il tema della libertà, la seconda, fino alla strofe 9a, che svolge il tema della persistenza del fascino della donna incrinato dal nuovo sentimento, la terza, sino alla fine, che riafferma piú risolutamente la conquista della libertà) si accompagna al ritmo slanciato e sicuro che percorre tutto il componimento senza debolezze e suture.

Da tutta l’aspirazione arcadica al canto non fine a se stesso, ma espressivo e poetico, questa canzonetta si leva come la sua conquista superiore in grazia di un’intelligenza cosí chiara, di una prontezza e alacrità inventiva cosí fervida.

Ogni battuta fa procedere la situazione e tutto si articola fra pause e trapassi e legami con una esile, ma salda, elastica continuità. E la varietà delle impostazioni (a chiasmo, a ripetizione, a contrasto, a dialogo e monologo), la forza delle «outrances» («la barbara catena / che trascinava un dí»), la concisione del paragone centrale con l’uccellino, e quella finale del guerriero e dello schiavo, la essenzialità emblematica degli elementi di paesaggio (la selva, il colle, il prato) si fondono in una estrema coerenza di linee, di mezzi tecnici, di linguaggio sull’onda premente del sentimento patetico-gioioso insaporito dai ricordi dell’amore passato, negato e colpito con fine forza ironica e insieme rievocato con tutto il suo fascino.

Non questo è il piú vero ritmo metastasiano, piú pastoso, fluido, morbido, ma questa impennata piú ritmica e lirica raccoglie pure quanto di scatto e di brio inventivo e sin di humour ironico si celava nei recitativi e nelle arie dei melodrammi.


1 Il Metastasio fu grande lettore di opere teatrali, antiche e moderne, spagnole e francesi, ma, come già si accennava in una nota all’Artaserse, egli ne utilizza soprattutto gli elementi di trama rifondendoli in una disposizione diversa e in relazione a ciò che piú gli preme e cioè la favola degli affetti e delle vibrazioni del cuore. Ciò non toglie però che nei confronti di Corneille e Racine egli fu sempre piú spinto (quanto piú tendeva al melodramma tragico e ai contrasti dovere-affetti) a una sorta di gara con essi (che era anche riflesso dell’ambizione italiana di gareggiare con quei massimi campioni del teatro rivale) e, per quanto riguarda il piú congeniale Racine, egli ne risentí fruttuosamente la lezione di finezza psicologica.

2 In cui è piú facile cogliere – entro un livello già cosí alto di eleganza e di finezza psicologica ed espressiva – certe goffaggini, certi toni di volgarità legati alla volontà metastasiana di caratterizzare i «malvagi» (litigiosità, vanteria ecc.). Si veda, ad esempio, la scena 10a del I atto in cui la presenza di Olinto provoca come un chiaro strappo al tessuto delicato e compatto della vicenda patetica di Alceste e Cleonice.

3 «Mel predice il core» (scena 2a del I Atto) è tipico modulo espressivo di questo linguaggio del cuore. E continuamente in questo melodramma si indaga e si gradua l’attività del cuore, fra le sue decisioni, i suoi presentimenti, le sue incertezze («io sento che alla ragion contrasta / dubbio il cor...»), le sue stanchezze («fra tanti pensieri / di regno e di amore, / lo stanco mio core, / se tema, se speri, / non giunge a veder», scena 3a, Atto I), i suoi palpiti («Già mi palpita il cor», Atto II, scena 11a).

4 Atto III, scena 15a.

5 Atto III, scena 9a.

6 E ancora in confronto con la base del sonettismo arcadico si noti il modo con cui il Metastasio, nella scena 14a dell’Atto II, riprende moduli del celebre sonetto della Maratti sulla gelosia (riportato a p. 53 risolvendone la singolare finezza psicologica e l’inclinazione melodrammatica in aperta scena teatrale e con maggior gamma di notazioni.

Fenicio (a Barsene segreta innamorata di Alceste):

Il tuo eccessivo zelo

intendere io non so. La nobil cura

della gloria di lui troppo ti preme.

Sensi cosí severi

nel cor d’una donzella

figurarmi non posso. Altro interesse,

sotto questi d’onor sensi fallaci,

nascondi in sen. Ma t’arrossisci e taci?

Parla. Saresti mai

rival di Cleonice?...

7 Atto I, scena 2a.

8 Cosí nel seguito della scena 2a del I Atto già citata, le parole di Cleonice, delusa nella speranza di una notizia rasserenante, si intrecciano con la didascalia nella decisione dolente interrotta e nel desolato e languido abbandono del corpo sulla sedia, sopraffatto il personaggio dall’elegia della sua situazione:

Misera me! Si vada (in atto di partire e poi si ferma)

dunque a sceglier lo sposo. Oh Dio! Barsene,

manca il coraggio. Io sento che alla ragion contrasta

dubbio il cor, pigro il piè. Chi mai si vide

piú afflitta, piú confusa,

piú agitata di me (si getta a sedere).

9 Alla fine della scena 5a dell’Atto II. E si moltiplicano gli «addii» entro la compagine del melodramma, a coagulare il senso piú interno del destino infelice e della vibrazione del cuore innamorato. Si veda, fra quelli piú puri, quello che chiude la scena 12a dell’Atto II:

Cleonice: Va cediamo al destin. Da me lontano

vivi felice; il tuo dolor consola.

Poco avrai da dolerti,

ch’io ti viva infedele, anima mia.

Già da questo momento

io comincio a morir. Questo ch’io verso,

forse è l’ultimo pianto. Addio! non dirmi

mai piú che infida e che spergiura io sono...

Oh quanto, Alceste, oh quanto

atteso giungi, e sospirato e pianto!

Esempio dell’arte metastasiana della patetica aggettivazione con il rimando della seconda coppia di participi in funzione aggettivale (la piú intensa ed elegiaca entro una situazione momentaneamente felice) alla fine del modulo espressivo-melodico.

10 Si veda nella scena 3a dell’Atto II nelle battute di Mitrane: «Ma da un desire estinto / germoglia un altro. E nel cambiare oggetto / non scema di vigor»... «ogni piacer sperato / è maggior che ottenuto». Frasi che di nuovo fan capire alcune ragioni della simpatia leopardiana.

11 «Costretta Cleonice / ad eleggere un re piú col suo cuore / consigliarsi non può, ma deve oh Dio / tutti sacrificar gli affetti suoi...».

12 Coro:

È follia d’un’alma stolta

nella colpa aver speranza:

fortunata è ben talvolta,

ma tranquilla mai non fu.

Nella sorte piú serena,

di se stesso il vizio è pena,

come premio è di se stessa,

benché oppressa, la virtú.

Ma anche la piú frequente voce del coro è anticipo di ulteriori novità tecniche utilizzate assai bene poi nell’Olimpiade.

13 Si veda la fine della scena 2a dell’Atto III, pur nella voce poco adatta di Learco:

Dille che meno

i deboli nemici

s’avvezzi a disprezzar...

Dille che in me paventi

un disperato amor:

dille che si rammenti

quanto mi disprezzò.

E se per queste offese

mi chiama traditor,

dille che tal mi rese

quando s’innamorò.

Il modulo è ripreso poi nell’Adriano in Siria in funzione piú coerente e quasi in forma di abbozzo del celebre passo dell’Olimpiade:

Sabina: Ma digli almeno...

Aquilio: Va senz’altro parlar, t’intendo appieno.

Sabina: Digli che è un infedele;

digli che mi tradí.

Senti: non dir cosí,

digli che partirò,

digli che l’amo.

(Scena 1a, Atto III).

14 Si legga la diagnosi di Aquilio – cortigiano malvagio – nelle parole di Emirena, nella scena dell’Atto II che raccoglie luoghi comuni letterari in una dimensione che doveva apparire anche contemporanea e pedagogica e si lega alle posizioni del Metastasio cortigiano convinto di una corte paternalistica illuminata dalla virtú nuova-antica dei re e dei loro diretti servitori.

Quando bisogna,

saprai sereno in volto

vezzeggiare un nemico: acciò vi cada

aprirgli innanzi il precipizio, e poi

piangerne la caduta: offrirti a tutti,

e non esser che tuo; di false lodi

vestir le accuse, ed aggravar le colpe

nel farne la difesa: ognor dal trono

i buoni allontanar: d’ogni castigo

lasciar l’odio allo scettro, e d’ogni dono

il merito usurpar: tener nascosto

sotto un zelo apparente un empio fine;

né fabbricar che su l’altrui ruine.

15 Che crea espressioni passate poi ad Alfieri e Monti («dell’alma mia parte piú cara») o a Leopardi («il fallo emenderò»). Ma insieme Sabina ha movenze piú svelte e quasi da commedia che preparano il personaggio di Creusa nel Demofoonte, ma son ben lungi dal trovare il centro di una loro misura organica, come avviene invece in Creusa.

16 La situazione di Ruggero e Leone ripresa in quella di Licida e Megacle.

17 Soprattutto (come il Flora giustamente affermò) nei recitativi «donde il Leopardi trasse i suoi modi pronti e dimessi» (Storia della letteratura italiana, II, p. 894). E certo molto aggiustata è la citazione del Flora del recitativo della cantata Il nome:

Io d’altra fronda il crine

non cingerò: non canterò che assiso

all’ombra tua: dell’amor mio gli arcani

solo a te fiderò; tu sola i doni,

tu l’ire del mio bene,

tu saprai le mie gioie e le mie pene.

E l’accenno al grande finale di Amore e morte ci deve dire (meglio dell’avvicinamento troppo immediato del Flora) come il Leopardi anche negli ultimi canti (dove la sua posizione è sempre piú antiidillica e antimetastasiana, piú musica che canto) serbasse un contatto della sua sublime semplicità e della sua tensione incandescente con i modi semplici ed eleganti, patetici del Metastasio, caricandoli di tutt’altra tensione e forza, ma riprendendone la disposizione di eloquio e colloquio, la tecnica dell’accentuazione dell’affetto non con ricchezza di immagini, con icastica definizione neoclassica (la via foscoliana semmai), ma con la pura disposizione sintattica-ritmica, con l’insistenza su parole assolute e semplici. Allo stesso modo, con una forza tremenda di analisi disperata e lucida che il Metastasio non conosceva, con il di piú del coraggio di verità dell’illuminismo, ancora nel Tramonto della luna, la diagnosi della vecchiaia, in cui fosse

incolume il desio, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre e non piú dato il bene,

non può non far pensare alla lucidità piú tenue delle catene di idee e di affetti e di immagini del Metastasio e al suo linguaggio (desio, speme, pene, bene). Insomma con tutta la forza nuovissima ed antimetastasiana della sua poesia, sia idillica sia eroica, con tutto l’apporto illuministico e preromantico, il Leopardi ha una base metastasiana remota, ma innegabile, che agevola la sua specialissima via romantica diversa da quella foscoliana e da quella dei romantici 1816 e lega, con tanta diversità di livello, il «pellegrino e familiare» leopardiano a una prima base di linguaggio del cuore che nel Metastasio aveva avuto (nel regno del patetico piú che del passionato) una sua consistenza (non solo una illusione) e una forza di riassunzione di tutta la tradizione melodrammatica e idillico-elegiaca della zona tassesca (ma per tutto ciò rimando al mio saggio su Leopardi e la poesia del secondo Settecento, ne «La Rassegna della letteratura italiana», 1962, p. 389 ss.).

18 Il quale però (Storia della letteratura italiana, op. cit., II, p. 895) ammette (e l’ammissione distrugge al centro la definizione qualitativa generale) che a volte prevale «un Metastasio ai cui versi non occorre altra musica di quella verbale ch’egli ha loro infusa». Direi che il rapporto va capovolto e che il «canto interno» metastasiano cede a volte, e magari spesso, a un «canto provvisorio» che ne è il surrogato piú esterno e frettoloso o, come avviene negli ultimi drammi, è frutto di una generale decadenza dell’ispirazione piú vera.

19 Con ricerche musicali insolite come la doppia rima del decasillabo:

L’onde chete del pallido Lete.

20

Il volto, il ciglio,

la voce di costui nel cor mi desta

un palpito improvviso,

che lo risente in ogni fibra il sangue.

Fra tutti i miei pensieri

la cagion ne ricerco e non la trovo.

21 V. finale dell’Atto II «Oh quanto / piú forte mi credei».

22 «Misera! in che peccai?» (scena 12a, Atto I), che è l’abbrivo piú prossimo del celebre verso della Saffo leopardiana.

23 Il Metastasio sentí qui il bisogno di rivelare la fonte sofoclea per quel che riguarda l’«eccesso» dell’incesto. Anche nel Demofoonte possono ritrovarsi elementi di fatto ripresi dall’Inés de Castro dell’Houdar de la Motte, dal Torrismondo, dal Pastor Fido.

24

Non dura una sventura

quando a tal segno avanza:

principio è la speranza

l’eccesso del timor.

Tutto si muta in breve;

e il nostro stato è tale,

che, se mutar si deve,

sempre sarà miglior.

Aria che non manca però di portare in Creusa una ulteriore nota caratterizzante nel suo insieme di ingenuità e di leggerezza incapace di seguire sino in fondo la curva tragica della vicenda, pronta a contrapporvi un suo moto piú impaziente e frivolo, un aspetto della sua vitalità fiduciosa e un po’ egoistica.

25 Ed entro la visione provvidenziale spunta qui una frase piú energica ed umanistica: il legame fra padre e figlio obbligato dalla sorte che li ha messi in tale rapporto è ora divenuto piú forte perché convalidato e come ricreato da una libera scelta di persone capaci di scelta. Dice Demofoonte a Timante:

Era fin ora

obbligo il nostro amor; ma quindi innanzi

elezion sarà: nodo piú forte,

fabbricato da noi, non dalla sorte.

Né tali accenti minori, ma vivi, andranno persi in una storia del melodramma metastasiano come documento e collaborazione creativa di una moralità inserita in schemi provvidenziali, ma non priva di elementi piú attivi e nuovi.

26 Che fra l’altro ci ricorda, con la sua collocazione in un porto di mare allo sbarco della nave che ha portato la principessa di Frigia e il suo accompagnatore Cherinto, come nel Demofoonte sia cautamente esercitata quella moderata libertà nell’unità di luogo che il Metastasio giustificava piú tardi nei suoi scritti teorici contro certo rigorismo eccessivo.

27 Atto I, scena 8a.

28 Atto I, scena 7a.

29 Ibidem.

30 Atto I, scena 8a.

31 Con quella capacità di densità sentimentale-musicale della parola che ci riconduce di nuovo, al di là di Beethoven, alla simpatia leopardiana:

Qual io divenni allora,

quel che allora io pensai, ciò che allor dissi

ridir non so... (Il sogno, Opere, II, p. 719)

... Dell’amor mio gli arcani

solo a te fiderò; tu sola i doni,

tu l’ire del mio bene,

tu saprai le mie gioie e le mie pene...

(Il nome, Opere, II, p. 720)

E tutta la deliziosa XXII, con il sogno amoroso-tormentoso fra le due arie (Opere, II, pp. 736-737).